Insert Coin

Avevo sei anni e guardavo quel totem mitico da sotto in su, come si fa con le cose sacre. Era una cabina alta e squadrata, con uno schermo incassato nella parte alta e una plancia che ospitava i comandi. 

Prima di allora l’avevo sempre osservato da lontano, estate dopo estate, perché non mi era concesso accedere ai suoi segreti.

Così, bambino, osservavo i ragazzi più grandi offrire sacrifici per ottenere il suo favore e i gettoni – rotondi, scanalati, pesanti – sparire dentro la fessura, uno dietro l’altro.

Quindi sbirciavo, mordendo un ghiacciolo, mentre a gruppi di tre o di quattro si cimentavano in quel rituale tecnologico.

Sì, allora il videogame – come prima il flipper – era un gioco di squadra. Uno giocava e gli altri lo supportavano, come navigatori di un rally virtuale, per massimizzare il tempo di gioco.

Morire era facile, allora: i comandi erano imprecisi, i software piuttosto rozzi, e anche se occhio e mano erano più coordinati di quelli di un cardiochirurgo, il GAME OVER era sempre dietro l’angolo.

Ma tutto ciò non faceva altro che rendere ancora più solenne quel momento. Quasi sacro, se non fosse per le bestemmie dei giocatori.

Così almeno lo percepivo io, con quell’unico gettone stretto nel pugno, vinto a una gara di sputi con un ragazzo più grande. Son bambini, signora, cosa vuole che le dica.

Aspettai religiosamente che il gruppo di giocatori abbandonasse il campo, presi una sedia dal dehor del ristobar e la sistemai davanti al cabinato. Aggiustai la distanza salendo e scendendo un paio di volte, perché non volevo sprecare quell’unica occasione.

Sulla consolle del videogame, davanti a quello schermo così simile al televisore di casa eppure così diverso, c’erano una leva e due pulsanti.

Feci scivolare la moneta nel buio della pancia meccanica e attesi che la schermata confermasse di aver gradito. Il gioco era Street Fighter.

Scelsi un giocatore, un tamarro biondo con evidenti problemi di gestione della rabbia, e diedi inizio al combattimento. Ricordo ancora la sensazione che mi diede far muovere quella figura sullo schermo con la sola mediazione di un joystick e un paio di bottoni.

Ebbi un’epifania: un mondo oltre il mondo, un mondo leggero e impalpabile in cui esistevano altre storie. Storie non necessariamente migliori di quelle a cui ero abituato, solo diverse.

L’epifania durò circa due minuti: il tempo di prenderle di santa ragione da una specie di chierichetto in kimono.

GAME OVER

Non piansi, anche se l’esperienza fu così fugace e sapevo che avrei dovuto aspettare parecchio per poter accedere di nuovo a quel mondo. Perché ormai sapevo che quel mondo era lì, che esisteva.

Da allora i videogiochi, o videogame come si chiamano adesso, hanno fatto moltissima strada. Per dirne una, oggi il costo di produzione di un videogame di alta gamma raggiunge con facilità quello di un film di Hollywood.

Eppure il nucleo era già tutto lì: in un bambino di sei anni che cerca la porta per un altro universo.

READY PLAYER X

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