Chiedimi se sono gentile

Che cos’è la gentilezza? Sei una persona gentile? 

Non proprio domande semplici alle quali rispondere.

Sul dizionario si scopre che la parola gentilezza deriva dal latino gentile: (m) propr. “appartenente a una famiglia” poi “nobile”, der. da gens, gentis “famiglia, schiatta”; av. 1292, che ha modi affabili e cortesi nel trattare con gli altri. 

La gentilezza è, dunque, strettamente legata al vivere sociale e ai modi che si hanno nell’approcciarsi nei confronti dell’altro. 

La gentilezza è quindi un’attitudine, uno stato dell’anima o uno stato emotivo?

Probabilmente un mix di tutte queste cose insieme. Essere gentili è mantenere il patto di fiducia con gli altri, prendersi cura e praticare reciproci atti di cortesia. 

Se in passato essa era attribuita a uno status di “nobiltà sociale” e – in un certo senso – a un concetto di “superiorità”, oggi la definizione è invece più improntata sull’idea di “nobiltà d’animo”. Essere nobili d’animo è una caratteristica innata dell’uomo ed è ciò che apre spiragli di speranza in un mondo spesso drammaticamente complesso.

La gentilezza è una forma di comunicazione universale, un balsamo per i rapporti interpersonali e una strada che conduce alla felicità.

La gentilezza è la lingua che il sordo ascolta e il cieco vede. Diceva a tal proposito Mark Twain. 

E di questa consapevolezza si nutrono anche coloro che propendono per una vita votata al benessere fisico e spirituale. Non per nulla il Buddismo riconosce la gentilezza (indicata con il termine mettā della lingua Pali) come il primo dei quattro sublimi stati brahmavihara e uno dei dieci passi pāramitā.

In questa accezione spirituale questo termine assume diverse connotazioni interessanti:

  • La benevolenza o gentilezza amorevole diventano una forma di sostentamento dell’anima, addirittura una pratica di meditazione quotidiana in grado di curare le nostre ferite esteriori e interiori.
  • L’amichevolezza ci ricollega profondamente all’altro e alle sue necessità.
  • La buona volontà ci spinge all’azione, al concreto e al bene disinteressato.

Attraverso questa pratica si può aspirare al raggiungimento dell’amore incondizionato. Quello di cui il Sommo Poeta Dante aveva trovato riscontro persino all’Inferno «Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende»…

La gentilezza si impara?

Come per tutte le cose serve pratica, di mente e di spirito. La parola gentilezza è presente in tutte le lingue e sarebbe interessante immaginare e scrivere un vocabolario contenente unicamente “parole gentili e positive” da portare ogni giorno a scuola come il sussidiario o da tenere incastrato tra i faldoni in ufficio, da lasciare sulle panchine al parco o alla fermata dell’autobus, da sfogliare al bar come inserto del quotidiano, da regalare a Natale o semplicemente da posare ogni sera sul comodino.

Quanto siamo facilmente fraintendibili? 

O meglio, quanto le nostre azioni – seppur fatte come atto puro di gentilezza – possono essere comunque messe alla berlina? Si può essere gentili senza cadere in equivoci?

È difficile, ma non impossibile. Questo perché la gentilezza risiede non solo in chi la pratica, ma anche negli occhi di chi osserva. Quindi non fatevene una colpa e non sentitevi incompresi. Non dipende tutto da voi, se le intenzioni sono sincere non c’è nulla da temere.

Emilia Bifano