Irene Facheris – Le regole delle regole del gioco


Chi può decidere le regole di questo gioco, a volte molto pericoloso?

Per Irene Facheris conoscere le regole del gioco non basta, perché le regole del gioco sono a loro volta governate da altre regole. Per fare un passo avanti, bisogna conoscere le tre regole che stanno alla base del gioco.

Torniamo alla domanda iniziale: chi decide le regole di questo gioco? Sicuramente non chi non è coinvolto in prima persona in atti di discriminazione, sostiene Irene Facheris. Vale a dire, ad esempio, che non è un bianco a decidere se una cosa è razzista, non è un uomo a decidere se una cosa è sessista, non è un eterosessuale a decidere se una cosa è omofoba. All’infuori del proprio campo da gioco, se si vuole giocare bisogna seguire le regole, proprio come in una partita a Uno, onde evitare spiacevoli incomprensioni. Perché, a volte, le buone intenzioni non sono abbastanza.

Sul palco di Ready Player X, l’evento targato TEDxTorino, Irene Facheris ci mostra una nuova prospettiva, per rivalutare sotto un’altra luce le discriminazioni, anche quelle a cui non abbiamo mai fatto caso.

Chi è Irene Facheris?

Irene Facheris è un’attivista, scrittrice, formatrice e creator. Esperta in gender studies, ha creato nel 2016 su YouTube la videorubrica per ragazzi Parità in Pillole. È presidente dell’associazione Bossy: una comunità di divulgazione e proposte d’azione su tematiche quali stereotipi di genere, sessismo, femminismo e diritti LGBTQ+. Tiene incontri sulla parità in aziende, scuole, università e organizzazioni italiane.

Leggi il Talk

Quante volte avete sentito, nell’ultimo periodo: “Eh ma ormai non si può più dire nulla. Una volta ci si faceva una risata, adesso tutti a offendersi.” Questo è un errore di ragionamento, pensare che prima non si offendesse nessuno. Pensare, cioè, che se prima una cosa non si vedeva, e adesso sì, significa che quella cosa non c’era. In realtà c’era eccome, c’è sempre stata, è che prima non aveva occasione di manifestarsi. Mi scuso per quello che sto per dire: sarò molto schietta, ma solo perché voglio essere chiara. “Fr*cio” non si doveva dire neanche negli anni ’80. Così come “neg*o”, così come “put*ana”. Se la sensibilità su alcuni temi aumenta, è perché adesso, finalmente, si sentono le voci di quelle persone che sensibili a quel tema lo sono sempre state. Una volta, le uniche voci che si sentivano erano quelle di chi aveva il potere: quindi, possiamo dircelo, non le donne, non le persone nere, non la comunità LGBT: lesbiche, gay, bisessuali, transgender e altro. Questo perché era chi aveva il potere a decidere se e quando accendere i microfoni, quindi le voci che si sentivano erano sempre le stesse.

Adesso, con Internet, ognuno di noi ha un microfono, ognuno di noi può potenzialmente parlare a tutto il mondo.

Ecco allora che su Twitter va in tendenza il pensiero di una persona che non ha potere, però ha il potere di dirlo. Ecco che diventa virale un video di una minoranza che dice: “Le cose così non vanno bene”. Ecco che un’azienda fa una pubblicità sessista o omofoba o razzista e fallisce, perché milioni di voci che sussurrano che così non va bene, fanno un baccano enorme se vengono microfonate. Qualcuno pensa che per evitare certi scivoloni sia sufficiente conoscere le regole del gioco. “Allora, questa parola non la possiamo più dire, e questo stereotipo va smussato un pochino. Qui ragazzi sono tutti maschi, ci mettete una donna? Una qualsiasi. Ecco se non è bianca meglio, così siamo un po’ inclusivi. Dai ragazzi, lo sappiamo come funziona. “Eppure, ciclicamente, c’è qualcuno che ha potere, che conosce queste regole del gioco, che si ritrova comunque a offendere una minoranza. E se va bene si scusa – senza capire di preciso per cosa debba scusarsi, ma almeno si scusa. Se va male, gioca la carta del “Eh, ma non si può più dire niente”, cercando di passare per la vittima.

Sapete perché accade?

Perché conoscere le regole del gioco non è sufficiente, perché le regole del gioco sono, a loro volta, governate da altre regole. Se vogliamo fare un passo avanti, dobbiamo conoscere le tre regole che stanno alla base delle regole del gioco. Regola numero uno: “Se la cosa non riguarda te in prima persona, non fai tu le regole”. Vale a dire che non è un bianco a decidere se una cosa è razzista; non è un eterosessuale a decidere se una cosa è omofoba; non è un uomo a decidere se una cosa è sessista. Mi è capitato più di una volta di sentire alcuni amici miei, neri, lamentarsi di cose che per me erano assolutamente non problematiche. “Hai visto la campagna di raccolta fondi per l’Africa? È così degradante.” Il mio cervello andava in tilt. “Come degradante? È una campagna di raccolta fondi per l’Africa, danno i soldi all’Africa!” “Quella celebrity, che continua a mettere foto su Instagram di lei con i bambini neri nei villaggi, quand’è che la smette?” No scusa, ma come “Quand’è che la smette”? Ma questa è piena di soldi, potrebbe passare la sua vita in vacanza, invece va lì ad aiutare, e tu dici “Quand’è che la smette?” È normale che questa sia la prima reazione. Che ci sembra di sentire qualcosa fuori di testa. In realtà lo è. È fuori dalla nostra, di testa, se siamo bianchi. Per noi quelle cose sono positive, quindi quando sentiamo una persona nera lamentarsene, è facile pensare che sia troppo sensibile, addirittura ingrata.

Questo perché ci dimentichiamo la regola numero uno: se la cosa non riguarda noi in prima persona, non facciamo noi le regole.

Non è un bianco a decidere se una cosa è razzista perché è difficile riconoscere il razzismo se non ne sei vittima, perché non sei allenato a vederlo. Ci ho messo un po’, ma ho iniziato a fidarmi di questa regola e anziché dire “Tu sei matto”, ho cominciato a chiedere “Perché?”. Perché la campagna di raccolta fondi per l’Africa è degradante? Perché la celebrity che mette le foto su Instagram di lei con i bambini neri nei villaggi, dovrebbe smetterla? La campagna di raccolta fondi per l’Africa è degradante perché racconta l’Africa sempre e solo in un modo, cioè come un continente tutto uguale dove non possono salvarsi da soli. È degradante perché sfrutta il corpo nero per muovere a compassione una persona per quei due minuti che servono per mandare un messaggino e donare un euro; ma non crea alcun cambiamento culturale. Non fa progredire l’Africa, e di certo non fa progredire noi. La celebrity che mette su Instagram le foto di lei con i bambini neri nei villaggi la deve smettere perché si sta atteggiando a salvatrice bianca. “Eccola: guardate questo angelo sceso dal cielo per aiutare. Che brava signora mia, guardi, potrebbe essere ovunque invece è lì.” Fa niente se non abbiamo neanche idea di dove sia questo “lì”, e soprattutto fa niente se non abbiamo la minima idea di chi siano i professionisti locali, che devono pur esserci. Che si fanno il mazzo quotidianamente per migliorare la situazione dall’interno e che continueranno a farlo anche quando i riflettori se ne saranno andati, perché i riflettori seguono lei, non loro. Boom!

Quante cose a cui non avevo mai pensato!

Quante donne abbiamo bollato come frigide perché non hanno riso alla nostra battuta sconcia? Quante persone della comunità LGBT abbiamo chiuso nello stereotipo di “troppo sensibile” perché non sono andate al cinema a vedere l’ennesimo film che le usa come espedienti comici? Pensate a quante cose avremmo potuto imparare se solo avessimo saputo prima che le regole del gioco, se il gioco non riguarda noi, non le facciamo noi. Se avessimo chiesto, perché?

Regola numero due: “Se vuoi giocare, devi seguire le regole.”

La cosa che mi ha fatto litigare di più nella mia vita, è la sequenza di +2 e +4 che partono ogni volta che si gioca a Uno. Il gioco di carte, ce l’avete presente? Io gioco un +2 e il mio avversario deve pescare due carte. Invece no: lui gioca un +2 a sua volta e mi vuole far pescare quattro carte. Ora, non lo puoi fare. E non lo puoi fare perché in ogni mazzo di carte di Uno c’è un foglietto con delle regole. Una delle regole dice che se ti arriva un +2, tu peschi due carte e salti il turno. Non esiste che cominciamo ‘sta catena di Sant’Antonio di +2 e +4, non lo puoi fare. E non voglio sentire “Eh ma io gioco così”, perché allora le regole, cosa le fanno a fare? E poi, anche ammesso di volerle cambiare – che non capisco perché, perché le regole le fa chi fa il gioco – me lo devi proporre prima. Non che durante tu decidi +2, e io dovrei anche vederti dietro. Fuori di metafora, se incontriamo una persona che fa parte della comunità LGBT e usiamo il termine fr*cio, non possiamo aspettarci che questa reagisca bene. Perché fr*cio è un insulto e di base non va usato. Alcuni miei amici gay si chiamano fr*cio tra di loro. All’inizio la cosa mi confondeva, “È un problema solo se lo uso io?” A parte che a qualcuno dà fastidio anche detto all’interno della comunità, ma comunque un conto è se è un ragazzo gay a usare il termine “fr*cio”, per depotenziarlo. “Ah, tu volevi insultarmi con quella parola? Sprechi il tuo tempo, perché mi ci chiamo già da solo.” Un altro è se io, che non faccio parte di quella comunità, mi arrogo il diritto di utilizzare quel termine perché “I miei amici gay lo fanno” o “Ai miei amici gay non dà fastidio quando lo faccio”. Sì, anch’io a casa mia con mio papà ho la regola che i +2 e +4 si sommano; ma non per questo, se gioco con qualcun altro, parto dal presupposto che quella – che è un’eccezione, più che essere una nuova regola, vada bene anche per lui. Questo funziona anche in scala più grande. Quando ad esempio si pensano dei prodotti, film, canzoni per la comunità LGBT e si fanno in un certo modo. Ecco, se la comunità LGBT ti dice che quel modo non va bene, non hai alternative al cambiarlo. O meglio, l’alternativa c’è, ed è trincerarsi dietro la giustificazione, ormai abusata, del “Ma io l’ho fatto in buona fede”.

Ecco, la buona fede non funziona per una semplice ragione: la regola numero tre. “Le buone intenzioni non sono sufficienti”.

Questa è forse la regola più difficile da digerire. Perché se noi facciamo qualcosa per un’altra persona, non accettiamo che qualcuno ci dica che quella cosa non va bene o che addirittura sia controproducente per la persona per cui l’abbiamo fatta in prima battuta. E questo, perché non ci è chiara una differenza che invece è centrale, per comprendere questo discorso. E cioè che intenzione ed effetto prodotto, non sempre coincidono. Immaginiamoci la scena. Incontriamo un’amica che non vediamo da diverso tempo e le diciamo: “Cavolo ma come ti vedo bene, sei dimagrita tantissimo”. E lei ci risponde: “Sì, in effetti ho perso parecchio peso perché è un periodo in cui non sto particolarmente bene. Anzi, speravo non si vedesse così tanto”. Ahia. La nostra intenzione era quella di farle un complimento, perché dire “sei dimagrita” è ancora considerato un complimento – ci vorrebbe un TED Talk a parte. L’effetto prodotto – (Applausi) L’effetto prodotto è un disastro.

Questo fa di noi dei mostri sadici che amano far soffrire il prossimo?

Ma certo che no. Ma il fatto che noi non volessimo farla soffrire non è sufficiente, tant’è vero che lei sta soffrendo comunque. Certo, noi non lo sapevamo, non è colpa nostra. Però rimane una nostra responsabilità, perché siamo stati noi a dire quella cosa, anche se in buona fede. Come ne usciamo? Scusandoci. Dicendole che davvero non volevamo farle riaffiorare emozioni negative. Anzi, se c’è qualcosa che possiamo fare per stemperare un po’ la tensione, lo facciamo volentieri – davvero, scusa.

La stessa cosa accade quando un uomo, nel tentativo di fare un complimento a una donna, finisce per avere invece un atteggiamento molesto.

Giusto l’altro giorno guardavo i messaggi sul mio Instagram. Ne ho trovato uno di un ragazzo che mi diceva quanto fossi bella, e quanto gli piacessero le mie labbra carnose. Ora, io non conosco le intenzioni di questo ragazzo. Voglio essere ottimista, pensare che fosse il suo tentativo di farmi un complimento. Ciononostante, io mi sono sentita molto a disagio. Era mattina, avevo appena preso in mano il telefono, la prima cosa che ho dovuto vedere è stato questo messaggio da parte di uno sconosciuto. L’ho vissuta veramente come un’invasione del mio privato. Ma perché me lo stai dicendo? Ma perché pensi che mi interessi?” Se siete uomini, parlate con le donne della vostra vita. Avranno tutte – tutte – una storia simile da raccontarvi. E moltissime di loro utilizzeranno le stesse parole: “Mi sono sentita sporca, in colpa, responsabile, piena di vergogna”.

Capite che le buone intenzioni non bastano?

Se una donna vi dice: “Io mi sono sentita a disagio”, il vostro “Ma io non volevo” ha senso solo se volete far sapere la vostra intenzione, non se pensate che questo vi renda immuni alle critiche. Eppure, ogni volta che accadono scivoloni del genere nel pubblico e nel privato, la tiritera è sempre la stessa. “Io l’ho fatto in buona fede. Quindi se tu l’hai vissuta male, il problema è tuo, che sei troppo sensibile.” Ecco, no. Se vuoi fare qualcosa di utile per un’altra persona, devi partire dal presupposto che lei sappia meglio di te come si possa fare. Devi fidarti di quello che ti dice.

E se sbagli, ed è umano sbagliare, devi chiedere scusa e riprovare.

Se ti interessa giocare a questo gioco. Se no, puoi sempre proporne un altro! Uno in cui le regole le fai solo tu, le cambi a tuo piacimento, e se non vinci, annulli la partita. Poi però, devi trovare qualcuno disposto a giocare con te. Buona fortuna. Grazie. (Applausi)


Relatore in questo video

L'evento di questo video